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Notiziario Centrale Marzo 1939 Speciale



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VITA SEZIONALE


   Dal passato all'avvenire


Fare una presentazione di questo fascicolo può sembrare superfluo.
E' un "numero unico" che commemora un venticinquennio di vita d'una associazione alpinistica. Senza dubbio è una piccola cosa, a petto di un quarto di secolo di fatiche e di entusiasmi, di lotte anche e di trionfi, come di rinunce e di disillusioni, alternate gli uni e le altre a rendere vario il cammino, e non solo vario, ma bello, degno della prodigalità di tante energie, dell'ardore di tante speranze.
Tutte queste vicende non potevansi e non volevansi evidentemente ricordare qui.
Piuttosto che il riassunto storico di cinque lustri ci è sembrato più rispondente al nostro carattere ed ai nostri desideri di vita, allestire un "numero" che toccasse un po' tutti gli argomenti che ci stanno a cuore e, magari con velato senso di nostalgia, ripresentare quasi un esemplare di quella Rivista di vita alpina che in tempi migliori era stato l'orgoglio del nostro Sodalizio.
Chi avrà queste pagine fra le mani, le consideri come più gli garba, ma una cosa vi cerchi e su essa mediti: lo spirito tutto nostro dell'amore alla montagna.
Perché soprattutto è questo che noi abbiamo voluto richiamare, compiendo l'anno giubilare.
Se le alterne vicende hanno potuto in tanti anni darci ore di prosperità, come di sosta, e di ripresa, non ci è mai venuto meno quello spirito che della «Giovane Montagna » fu movente e giustificazione: andare al monte per cercarvi e servirvi Iddio, ed a questo proposito tutto informare anche nella più modesta preparazione tecnica di una gita come nello studio delle realtà della vita alpina.
E su questa via la «Giovane Montagna » vuole camminare ancora. Da queste pagine, dopo una modestissima elencazione di cronaca, partono riaffermati i principi.
A che pro' ricordare, commemorare, se non si guarda al futuro perché il cammino che sta davanti sia non indegno almeno di quello percorso? Avevamo, venticinque anni fa; da dire una piccola parola nell'orecchio di quanti incominciavano a propagandare l'avvicinamento della montagna: ricordatevi di Dio! La dicemmo a noi ed ai fratelli, senza pretese od ostentazioni, ma con convinzione. E la parola fu raccolta... La ripetemmo tante altre volte ancora.
Oggi possono essere cambiati i termini dell'espressione e l'estensione della risonanza, ma questa parola va detta ancora. E la «Giovane Montagna» vuol essere lì per quello. Oh, come ci sentiamo di sottoscrivere all'invito di Don Cojazzi che segnala all'operosità delle anime che sentono Dio nei monti la necessità di dare a quante altre anime sui monti troppo si assentano dietro le esigenze della vita fisica e le pretese convenienze della vita sociale, dare quel tanto di Dio che loro occorre per non profanare con esse stesse, la montagna che le ospita!
E così l'anelito delle più belle conquiste sui ghiacciai, sui ripidi crinali nevosi come sugli strapiombi rocciosi, alimentato dal desiderio di irrobustire i muscoli come di educare i caratteri, di assicurare una degna preparazione di tempre alla conoscenza, allo studio delle bellezze come alla difesa del baluardo alpino; con la tenacia tutta montanara di concretare l'amor di Patria con l'amore dei monti, perché d'acciaio siano piccozze, e petti, e cuori, e tutta tesa sia la volontà nel far d'ogni alpinista un alpino per le perenni fortune d'Italia; tutto questo entusiasmo di elevazione, di purificazione e di miglioramento e fisico e spirituale, può ben continuare ad essere il titolo d'onore degli appartenenti alla «Giovane Montagna», che lo vivono in un'atmosfera di gioconda fraternità: volti bronzati naturalmente dal sole, occhi chiari consueti agli orizzonti vastissimi dei cieli, mani serrate in strette silenziose ma che non sanno rallentare, anime piene di fede, d'un'unica fede che tutte abbraccia quelle nobili ed alte: Dio!
Natale Reviglio.

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   UN QUARTO DI SECOLO


Che l'onesto svago non vada disgiunto e non ostacoli l'adempimento del proprio dovere: questo è il programma della Giovane Montagna nel campo dell'alpinismo e dell'escursionismo.
Con tale programma, che appena lo si consideri rivela multiformi e salutari aspetti, essa sorse nella primavera del 1914 ed ebbe subito uno statuto, un distintivo, una sede, tutto quanto insomma la burocrazia e l'entusiasmo dei fondatori ritenne necessario.
Poi le adesioni si moltiplicarono. Si andava in montagna imitando le facce e gli arnesi dei pionieri e la pace dei monti non lasciava presagire l'immenso uragano della guerra mondiale.
Mobilitazione generale. Tutta la gioventù italiana veste il grigio-verde: rimasero pochi anziani ed alcune signorine. Ma già si pubblicava un bollettino sociale di cui il primo numero era uscito nell'autunno dopo una gita alla Madonna del Selvaggio. Nel 1915 ne uscirono altri tre e il terzo, già a stampa, passò attesissimo dalla città al fronte, spedito ormai in oltre 100 copie.
L'iniziativa di far costruire una cappella rifugio in vetta al Rocciamelone, accolta fin dalla fondazione, sarebbe stata la prima grande opera appena fosse tornata la pace. E le volontà furono tese a quest'opera fino alla sua realizzazione, alla quale pure tendevano la popolazione e la Diocesi di Susa sotto la guida animatrice dell'Ecc.mo Vescovo Mons. Castelli e l'intelligente operosità di Mons. Tonda.
Il Papa Alpinista, al quale si richiese di poter dare il nome di Pio XI al rifugio, propose quello di Santa Maria ed il 12 agosto 1923 il rifugio venne inaugurato alla presenza di S.A.R. Filiberto di Savoia Duca di Pistoia, che pochi mesi dopo accettò la presidenza onoraria dell'Associazione.
Alla fine del 1924 un'altra realizzazione: il 7 dicembre si inaugura la nostra « Casa dello Sciatore » a Salice d'Ulzio, la cui importanza non può sfuggire quando si ricordi che allora si pernottava per lo più sulla paglia nel calore delle stalle e non esisteva, ad esempio, la Villa Clotès.
Nel 1926 la Giovane Montagna è « il primo ente in Torino a comprendere le alte finalità dell'Opera Nazionale Dopolavoro entrando a « farvi parte dal suo sorgere » (1).
Ma la morte già ci priva di care amicizie. Nell'agosto 1923 Nino Loretz lascia la vita in un fatale incidente al Château des Dames; nel febbraio1924 muore il nostro primo presidente Rag. Cav. Stefano Milanesio; nel luglio 1925 Pier Giorgio Frassati ci abbandona egli pure, forse per la gloria degli Altari.
La Presidenza Centrale viene quindi assunta dal Prof. Comm. Alessandro Roccati negli anni 1924 e 1925, poi dal Prof. Italo Mario Angeloni passa al Cav. Mario Bersia nel 1929 e dal 1933 all'Arch. Natale Reviglio. Reviglio.
Intanto sotto le varie presidenze l'Associazione prospera rigogliosa. Le gite sociali, sempre meglio organizzate, giungono a primati strepitosi. Sono oltre cento gitanti raccolti in vetta alla Ciamarella il 20 luglio 1924 ad ascoltare la S. Messa celebrata dal Rev. Parroco di Balme. Qualche anno prima, sotto la guida del Teol. Secondo Carpano, era stata compiuta a Capodanno l'ascensione del Rocciamelone. Durante l'ascensione del Monte Bianco una nostra comitiva di otto cordate viene fermata dal maltempo al Colle del Dôme. Umili cappelle e spesso improvvisati altari in alti rifugi od in rustiche baite ci vedono riuniti per la S. Messa, resa colà possibile dall'indulto che Sua Santità con paterna sollecitudine si è degnato concederci (2).
Le settimane alpine del M. Rosa (1921), del Lago Miserin, di By, del Breuil, del rifugio Nizza, di Pont Valsavarenche, del Ruitor, si estendono dal 1927 a tutto il mese di agosto ad Entrèves, a Cogne (Silve Noire), al Belvedere di Alagna, ad Ollomont ed ora di nuovo ad Entrèves dove da quattro anni si alternano turni frequentatissimi.
L'attività sciistica si sviluppa come propaganda per l'uso e la diffusione dello sci, ma subito si orienta verso le più alte mete dello sci alpinistico per merito dei nostri migliori di Torino e di Aosta.
L'attività agonistica, in quanto esula dal nostro programma di .propaganda per escursionismo ed alpinismo invernale, è invece meno curata, riducendosi a poche gare riservate ai soci.
Sotto l'egida del « Gruppo Sciatori Giovane Montagna » sono tuttavia aggiudicate nei campionati sciistici della sezione di Torino le Coppe Luigi Bianzeno, Angelo Gallian, Piero Rappelli, Pier Giorgio Frassati, e, quando anche le altre sezioni hanno raggiunta una certa maturità, sono messe in palio, come gare intersezionali, la Coppa Angeloni e il Trofeo Gemelli; quest'ultima gara ci piace ricordarla particolarmente perché organizzata con caratteristiche di marcia alpina a squadre da Salice a Claviere attraverso il Fraiteve e il Colle della Luna.
La prima disputa del Trofeo Mezzalama (1933) trova quindi i nostri pronti a scendere in campo classificandosi al 9° posto.
La Rivista segue ogni attività, è il cuore dell'associazione, è l'orgoglio dei soci, onore ed onere dei direttori e redattori. Il compianto Mons. Gino Borghezio, l'Arch. Natale Reviglio, l'Ing. Prof. Ernesto Denina, il Rag. Guido Muratore e l'Ing. Carlo Pol, sono costretti spesso a sacrificare !e loro ore di libertà alla pubblicazione che dal 1924 è diventata mensile e tiene alta la nostra bandiera in tutti i campi, come rivista di vita alpina.
Le diligenti monografie di Muratore e di Asquasciati e quella pregevolissima di Denina sul Gruppo del Ruitor hanno avuto larga risonanza come larga risonanza ebbero le trattazioni di Angelo Rivera e di Ottorino Mezzalama sullo sci alpinistico e sui suoi sviluppi e possibilità.
Essa varcò anche i confini della nostra Patria e ci procurò l'amicizia e la collaborazione di uomini come M. Kurz, Com. Gaillard, F. Montandon, insieme all'omaggio delle maggiori riviste alpinistiche estere, che ancor oggi cortesemente ci vengono inviate.
Due piccole mostre d'arte alpina (1927 e 1929) riassunsero inoltre l'attività di soci e simpatizzanti nel campo della fotografia e della pittura, della plastica e della ceramica, onorate anche dalla partecipazione di eccellenti professionisti.
Ma frattanto l'attività escursionistica, mentre da un lato si emancipa da particolari bisogni organizzativi, d'altro lato si evolve rapidamente orientandosi verso possibilità turistiche insperate, assecondata in modo mirabile dai Dopolavoro aziendali, dai treni popolari, dalle facilitazioni individuali di viaggio.
Come tutte le altre associazioni similari, anche la nostra vede aprirsi vuoti paurosi nello schedario dei soci. E' con dolore che nel 1934 s'impone il sacrificio della Rivista.
Dopo meno di sei mesi sorge il « Notiziario mensile »: otto modeste pagine riempite con un articoletto e con relazioni e programmi di tutte le Sezioni. Su questo Notiziario abbiamo seguito le cronache di questi ultimi anni constatando che, se molto cammino ci sta sempre dinnanzi, siamo ancora e sempre sulla buona via.
Riprende una larga frequentazione delle gite sociali e con queste un rifiorire di nuove energie, disposte presto a partecipare al lavoro direttivo, lavoro modesto e proficuo, soltanto se frutto di costante attaccamento all'associazione.
L'accantonamento estivo è sempre più affollato per i benefici che si possono trarre dalla sua semplice ed ottima organizzazione, come luogo di ritrovo e di riposo per le vacanze, punto di partenza per gite con compagni fedeli ed affiatati, verso mete che ognuno adegua alla propria capacità ed alla propria esperienza.
Il prevalente carattere alpinistico della nostra attività esige ormai un adeguato inquadramento organizzativo ed è così che viene costituita la nostra Sottosezione del C.A.I. che conta ora già 6 anni di vita.
Del ventennio dell'Associazione è indimenticabile il ricordo del pellegrinaggio giubilare a Roma con la visita al S. Padre, il Quale ci riceve con la cordialità per noi già consueta, benedicendo noi e la nostra associazione, ed intrattenendosi in ricordi, considerazioni e consigli tratti dalla Sua vita di alpinista.
Di questi ultimi anni voglio soltanto ricordare il più grande avvenimento la cui rapida realizzazione paragonata ai nostri modesti mezzi è ancora un altro segno di giovanile- attività: la costruzione del Bivacco Carpano al Piantonetto, inaugurato il 19 settembre 1937 e donato al C.A.A.I. a ricordare il nostro amico Dott. Gino perito durante l'ascensione solitaria alla Cresta Rey della Bessanese (3).
Ed eccoci al venticinquesimo anno di vita.
Un intimo bisogno ci spinge numerosi a riunirci il 3 Luglio dello scorso anno sul sentiero del Rocciamelone, su quel sentiero che ha visto passare tutte le generazioni della Giovane Montagna, come ha visto per secoli Principi e popolo salire in devoto pellegrinaggio a « Maria - Alma Dei Mater nive candidior ».
E' poi cosa di ieri il convegno intersezionale a Lecco ed alla Grigna Meridionale (17-18 settembre 1938) col grande distintivo del « venticinquennio » comparso in quella occasione coi suoi vivaci colori. Convegno riuscitissimo e più numeroso dei nostri congressi del Pasubio (20-22 Settembre 1929) e dello Stelvio (20-22 Settembre 1930) quantunque la ristrettezza del tempo abbia impedito di darvi lo sviluppo da questi allora assunto.
Chiuderò così questa rapida cronologia tralasciando la storia delle Sezioni? Vi sono costretto dalla ristrettezza dello spazio.
La cronistoria di ogni Sezione sì avrà in ricorrenze che più da vicino tocchino ciascuna di queste. Tuttavia è doveroso almeno enumerarle. In alterne vicende fiorenti Sezioni sono venute ad aggiungersi alla nostra compagine, e per contro parecchie belle Sezioni ora non esistono più che nel nostro ricordo; accenno a Susa, Torre Pellice, Venezia, Roma, Aosta. Ricordo di tante amicizie e di tante vittorie; doloroso ricordo della scomparsa di Cino Norat, Dina e Giovanni Charrey (25-8-1929) nello sventurato tentativo alla parete Est dell'Emilius.
Sono oggi vive e forti sei Sezioni: quella di Pinerolo, silenziosa e fiorente, che tante benemerenze ha acquistato nelle sue valli; la rinata antica Sezione di Ivrea; la Sezione Novarese ancora guidata dal sempre giovane Prof. Cav. Don Luigi Ravelli; la Sezione di Verona che in unione alla locale Sezione del C.A.I. ha recentemente innalzata una gran Croce sulla Tofana di Mezzo in occasione del ventennio della vittoria italiana nella guerra mondiale; la Sezione di Vicenza, giovane e scapigliata che diede alla Patria un Enrico Schievano, fulgido eroe morto nei cieli di Spagna e decorato di medaglia d'oro; la giovanissima Sezione di Genova che a pochi mesi dalla fondazione si è già portata all'altezza delle consorelle.
Dopo lo scioglimento della Federazione Italiana Escursionismo, nella quale il Cav. Bersia collaborò per anni col Conte Toesca di Castellazzo, le Sezioni prosperano sotto la guida ed alle dipendenze delle gerarchie locali del Dopolavoro « opera di pace che persegue una sublime missione di fratellanza, di amore e di civiltà ».

(1) Cav. Ezio Gasparri, 1° segretario Prov. dell'O.N.D. - Superga 6-11-1927.
(2) Lettera di S. Em. il Cardinale Gasparri a S. Em. il Card. Gamba - 21-1-1927.
(3) Ricordiamo qui i nomi di altri amici che la montagna rapì alla Sez. di Torino: Eugenio Saragat (aprile 1929), Carlo Bianchetti (agosto 1932), Vittorio Sigismondi (settembre 1933).
A. Morello

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   I nuovi compiti della Giovane Montagna


Tengo qui davanti un libretto stampato nel 1926 dal titolo duplice: « L'Alpinismo cristiano e le sue affermazioni. Per la cappella-rifugio sul monte Rocciamelone ».
Sono poche pagine nelle quali viene illustrato il lato spirituale dell'alpinismo, quale programma della Giovane Montagna, costituita nel '14. Come prima affermazione, la gioventù piemontese aveva lanciato la proposta della Cappella-rifugio a Maria, omaggio delle famiglie dei combattenti "alla celeste Custode dei confini d'Italia".
Il monumento alla Vergine era stato eretto nel 1899 con le offerte di quei bimbi d'Italia che nel 1918 erano combattenti.
E' bello riprodurre gli ultimi periodi dell'opuscolo, scritto da Mons. Castelli, Vescovo di Susa, il 2 febbraio 1916, festa della Parificazione: "Sì, "o Maria, sorridi e benedici, te ne preghiamo fidenti, alla Chiesa, e al suo Vicario che in te ripone la sua fiducia, e che dal tuo patrocinio tanto spera di veder presto ridonata al mondo sconvolto la tranquillità e la pace. Sorridi e benedici al nostro Sovrano che, nobile esempio di sacrificio, divide con gli umili gregari le fatiche e le ansietà del campo. Sorridi e benedici ai nostri reggitori e ai nostri duci; guida la loro mente, reggi il loro braccio, affinché possano condurre presto, in un cogli alleati, gli eserciti alla vittoria. Soccorri i miseri, aiuta i pusillanimi, conforta i doloranti, prega per il popolo, intervieni propizia al clero, intercedi per il devoto sesso femminile e fa' che tutti sentano la potenza benefica del tuo aiuto. O Maria, dall'alta vetta del Rocciamelone, volgi a noi il tuo sguardo benigno: la Diocesi Segusina e l'Italia tutta è ai tuoi piedi; sorridi e benedici".
Il programma specifico era stato fissato fin dal dicembre 1914 in un foglietto litografato, di cui trovo una riproduzione fotografica nel fascicolo del Maggio 1924 a pag. 95:
"Il nostro scopo è semplicissimo, ed è espresso chiaramente nei primi articoli del nostro Statuto: vogliamo cioè promuovere ed organizzare gite in montagna, nelle quali si tenga stretto conto del precetto festivo, e si subordini quindi ogni programma alla possibilità di soddisfarli rigorosamente. Ma non intendiamo con questo di limitare il campo delle nostre escursioni alla Sacra di San Michele od al Santuario di Sant'Abaco: conosciamo così bene la grande varietà di paesaggio di cui son ricche le nostre vallate, e ricordiamo con tanta gioia i panorami grandiosi che si godono dalle vette ben note delle nostre Prealpi, che non ci troveremo certamente imbarazzati a scegliere ed a variare la meta delle gite che promuoveremo, pur servendoci sempre di quelle linee e di quei treni il cui orario ci permetta un'esatta osservanza dei nostri doveri religiosi.
"Questo diciamo subito, fin dal principio, perché a noi piacciono le situazioni chiare, e perché siano subito affermate senza equivoci la serietà dei nostri principi e la franchezza con cui li professiamo apertamente, senza formalismi ostentati, ma anche senza alcun rispetto umano".
Ho fatto due citazioni, che potrei moltiplicare attraverso la Rivista e anche il Notiziario che successe alla Rivista, per tracciare alcune linee di programma su i possibili nuovi compiti della gloriosa società, di cui celebrammo il venticinquennio nel settembre scorso sulla Grigna.
Ormai l'alpinismo cristiano, limitato alla correttezza del contegno, all'elevazione dello spirito e alla pratica del precetto festivo, si può dire diventato comune, s'intende per i bene intenzionati. Manca invece l'attrezzatura religiosa nei centri più popolari che sono punto di partenza o punto di ritrovo per gli alpinisti.
Ecco un saggio di prospetto schematico fornitomi da soci piemontesi:
Al Sestriere, il servizio funziona bene, quanto alla celebrazione della Messa; ma il sacerdote, non avendo casa propria, non può dare continuità alla sua azione che non deve limitarsi all'opera specifica dell'altare.
A Claviere, il sacerdote, dovendo celebrare due Messe, una nel capoluogo e l'altra a Monginevro, con difficoltà può attendere ad altre opere inerenti al ministero sacerdotale.
A Cesana, Bousson, Ruilles, etc., pur essendovi il parroco per la stretta necessaria osservanza del precetto festivo, l'assistenza religiosa per i turisti manca affatto.
A Salice d'Ulzio, l'orario della Messa è più in funzione del popolo che non in funzione dei turisti. Tutto ciò è secondo giustizia; ma tutto ciò può risolversi in un meno bene per quelle anime che vogliono cristianizzare l'alpinismo.
A Val Formazza (cascata del Toce) l'attrezzatura turistica è perfetta, mentre l'attrezzatura religiosa non solo è deficiente ma è assente. Il sacerdote viene invitato soltanto quando... qualcuno se ne ricorda.
Al Breuil, frazione di Cervinia, il Rettore provvede per la Messa domenicale e altri sacerdoti villeggianti vi contribuiscono largamente con orari comodi. E' invece sentitissimo il bisogno di un'assistenza religiosa permanente e conveniente a un centro che è in pieno sviluppo in ogni stagione dell'anno.
A Bardonecchia, fu costruita una nuova cappella nel quartiere signorile di Borgo Nuovo, Ma l'assistenza religiosa è una cosa viva, ben distinta dai muri d'una cappella.
A Mélezet, venuto a mancare un sacerdote che celebrava con orario comodo per gli alpinisti, questi ora sono del tutto trascurati.
In generale, il bisogno è duplice:
1°) Costruzione di cappelle in questi e in altri centri con dotazione sufficiente alla permanenza di sacerdoti, convenientemente attrezzati spiritualmente e culturalmente.
2°) Convinzione da parte dei Rev.di Parroci che, senza tali larghe comodità, la popolazione locale riceve deplorevole esempio di trascuratezza religiosa da parte degli alpinisti o dei gitanti in genere.
Poco vale lamentarsi e deplorare. La tendenza a frequentare i centri alpinistici è un fatto che va crescendo di proporzione. Come la Chiesa nell'alto Medio Evo non si perdette a declamare contro i barbari che invadevano le terre dell'Impero, ma li affrontò, li educò e maternamente li fece suoi, così ora la Chiesa affronti, aiuti, illumini e cristianizzi queste folle che non sono barbare dal punto di vista civile, ma che minacciano di diventare pagane dal punto di vista religioso.
Ecco un duplice compito che la Giovane Montagna deve proporsi se vuoi mantener fede al programma sopra citato e fissato nel primo anno di sua esistenza.
Queste opere buone devono continuare e moltiplicarsi.
Torino, Liceo Valsalice, Pasqua 1939. Don Cojazzi

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ATTIVITÀ SVOLTA


   La Valle di Rhêmes - La parete terminale - La Tsanteleina


La valle di Rhêmes s'interna in quel nucleo di montagne che fanno capo alla Tsanteleina e alla Grande Sassière, nucleo che si può delimitare molto nettamente dal resto delle Alpi Gaie, come quello che la Valsavarenche e la profonda insenatura del Nivolet staccano dal gruppo del Gran Paradiso, la valle dell'Orco e la larga depressione del passo della Galisia da quello delle Levanne, l'alta valle dell'Isère recinge a Sud e il colle du Mont e la Valgrisenche separano dal gruppo del Rutor.
La Tsanteleina domina il bacino terminale di Rhêmes; la Grande Sassière quello di Valgrisenche. Fra essi si origina un contrafforte che, di uguale importanza e altezza della cresta di confine, procedendo da Sud verso Nord, divide la valle di Rhêmes dalla Valgrisenche.
La valle di Rhêmes si presenta sotto forma piuttosto regolare di rettangolo assai lungo e stretto, i cui lati maggiori mantengono una direzione pressoché costante Sud-Sud-Ovest. Essa si protende per una lunghezza di circa 28 chilometri e una larghezza media di oltre 6.
Le sue sponde laterali sono fra di loro assai diverse: quella ad Ovest è dotata d'una pendenza media assai superiore di quella ad Est e scende ripidissima con valloni brevi e scoscesi che paiono piuttosto solchi, mentre l'altra s'innalza meno ripida, con ampie conche e ripiani spaziosi.
La testata poi, a differenza di tante altre non è foggiata ad angusto imbuto, ma s'apre come un vasto anfiteatro, le cui gradinate lievemente declinino verso un'ampia platea.
Ad eccezione di pochi inglesi, francesi e italiani, nessuno si era mai curato di queste belle montagne fino a pochi decenni or sono.
Forse il carattere dell'insieme è severo, cupamente alpino per le alte pareti a picco e crepuscoli precoci, ma in compenso, quale sapore di romito e di tranquillità non hanno i suoi paesaggi!
Ora che le comunicazioni sono favorite da una discreta rotabile percorribile anche con piccole automobili e che il problema ricettivo venne risolto colla costruzione del rifugio Benevolo di proprietà della Sezione di Torino del C.A.I. immediatamente a Nord delle montagne di Lavassey, è da augurarsi che un maggior numero di alpinisti si rechino a visitarla.

LA PARETE TERMINALE
Si può comprendere nel tratto che va dalla punta Basei (m. 3338) alla Becca della Traversière (m. 3337).
Dalla punta Basei da cui l'occhio spazia fino al pianoro di Ceresole Reale, il circo terminale della valle di Rhêmes, tutto formato da calcari giallastri, offre uno strano e forte contrasto colla cresta della Grande Sassière che spunta dietro, costituita da calcari cenerini che visti da lontano paiono perfettamente neri. Innumerevoli sono i laghi che di lassù si vedono: alcuni vastissimi, altri di modeste dimensioni. Tra di essi i laghi del Rossett, Leità, del Nivolet, dell'Agnel, Serrù, di Pratorotondo, delle Rocce, di Ceresole ed altri.
Lo spartiacque con andamento Sud-Ovest raggiunge la punta Bousson (m. 3337). La cresta si affila tra una precipite parete ad Est ed un pendio di ghiaccio che riveste tutto il versante Ovest, bruscamente interrotto da una crepaccia terminale. Però ad eccezione di uno spuntone in principio che offre qualche difficoltà e che si può girare sul suo fianco orientale, il percorso per quanto aereo si può effettuare con sicurezza in poco più di mezz'ora.
La punta Bousson costituita da banchi di scisto-clorite, più che per la sua elevazione sulla costiera, ha importanza perché da essa, oltre che il crestone ad Est che separa l'anfiteatro dell'Agnel dal piano della Ballotta, se ne parte un altro verso Ovest, breve e di poca elevazione, completamente coperto dal ghiacciaio di Lavassey e che non tradisce la sua presenza se non con un acuto dente che verso il mezzo riesce a forarlo. Dalla valle dell'Orco l'ascensione diretta offre serie difficoltà di roccia, mentre dal versante di Rhêmes si devono superare ripidi ghiacciai.
Dalla cupola nevosa della punta Bousson il clinale procede verso Sud-Ovest presentando un agevole dosso nevoso; piega poi bruscamente a Est, ad un centinaio di metri dalla punta di Galisia (m. 3346). Occorre scendere e risalire un breve avvallamento di neve per guadagnare la vetta, piccolo spazio roccioso sormontato da un ometto di pietra, costituito da pietrame calcareo profondamente corroso. Questa vetta, che è la più meridionale della valle di Aosta, offre un panorama di incomparabile bellezza.
Si può scendere direttamente per l'ampio ghiacciaio di Basagne e percorrendo lo spartiacque poco pronunciato che la divide dal ghiacciaio del Fond si raggiunge con poche difficoltà il colle di Basagne (m. 3110).
Da questo colle il Roc Basagne (m. 3220) che segue, si presenta come un sottile muro di roccia d'un centinaio di metri di altezza, di aspetto poco incoraggiante. Per un'affilata cresta di neve e di roccia si giunge ai piedi del picco. Oltrepassato di pochi metri lo spigolo sul suo versante Nord, si supera una caratteristica roccia verdastra che offre rarissimi appigli. Proseguendo per una specie di canale malsicuro, con una ripida arrampicata si raggiungono cornici che si percorrono verso Ovest e per rupi assai inclinate si afferra la cresta a pochi metri dalla vetta Est e in pochi minuti si perviene a quella più elevata.
La parete settentrionale del Roc di Basagne precipita sul margine orientale del ghiacciaio del Fond, con ertissimi pendii rocciosi che danno origine a continue cadute di sassi. Sul versante francese si distacca dalla vetta, con direzione Sud-Ovest, un contrafforte roccioso che separa per vari chilometri il vallone di Basagne da quello che fa capo al colle del Fond, contrafforte che si presenta assai dirupato a Sud-Est, mentre da Nord-Ovest è raggiunto da un comodo ghiacciaio.
Dalla vetta, formata da calcari cariati di colore giallo chiaro si discende per un pendio franoso e per il ghiacciaio sul fianco orientale guadagnando in breve il nevoso colle del Fond (m. 3081), chiamato impropriamente da qualcuno colle Calabre. Venne percorso per la prima volta da alpinisti nel 1876 (1) e permette di raggiungere in breve la valle dell'Isère.
Dal colle, proseguendo verso Ovest si raggiunge la base del Roc del Fond (m. 3351), che da questo lato si presenta come una piramide assai dirupata che mi risulta si possa scalare con qualche difficoltà.
Effettivamente il Roc del Fond è costituito da una caratteristica piramide rocciosa che presenta quattro spigoli ben delineati: uno ad Est che precipita sul col del Fond, uno a Sud-Ovest che termina sul ghiacciaio di Rhême-Calabre, uno a Nord-Est che scende quasi ad incanalare il col di Rhêmes, un ultimo a Nord irto di ronchioni. I versanti Sud ed Est sono di viva roccia, quello Nord è rivestito da placche nevose e di ghiaccio fortemente inclinate; sul versante Ovest sale dal col di Rhêmes una striscia di ghiaccio che restringendosi verso il sommo, tosto si allarga nuovamente per incappucciarne la sommità.
Il panorama quantunque in parte limitato dalla punta Calabre è bellissimo. Dalla vetta si può scendere in circa un'ora al col di Rhêmes dovendosi superare qualche difficoltà ed attraversare la crepaccia terminale non molto larga.
Detto colle viene pure denominato colle di Calabre o di La Val ed è situato a m. 3097. Offre un maggior interesse, ma altresì una via un po' più lunga di quella del colle del Fond a cui è parallelo.
Sempre seguendo la linea di confine e volgendo verso Ovest si attacca la parete rocciosa di un picco che offre scanalature e piccoli canali per i quali in poco più di un'ora si perviene alla punta Calabre (m. 3445) (2). Questa dal versante Ovest si può salire comodamente cogli sci ed il panorama che si gode dalla vetta ripaga largamente la fatica del salitore.
La punta Calabre presenta un profilo molto diverso dai vari lati: visto da Est si presenta sotto forma d'una lunghissima parete che s'inizia presso il col di Rhêmes e corre verso Sud sempre più diruta, costituita da calcari cariati; da Ovest come una vasta distesa di nevi che scendono dolcemente ondulate sul ghiacciaio di Soches, solcate da numerose fenditure, costituendo per esser più precisi, il ghiacciaio che sale a riempire la vasta conca che la cresta (foggiata a ferro di cavallo molto aperto) ha formato; da Nord-Est offre invece un pendio di ghiacci e rocce assai scoscese raffigurante una tozza cupola.
Dalla sommità della punta Calabre il clinale si abbassa ad una depressione ghiacciata quotata m. 3355, quindi risale (sempre per ghiaccio) ad una prominenza (m. 3472) che il Rev. Coolidge, primo salitore, ha chiamato punta Quart Dessus, dal nome del piccolo ghiacciaio sul suo versante Ovest (3). Poscia, volgendo decisamente a Nord, scende alla quota 3423, per risalire ad uno spuntone roccioso (m. 3490) a cui un altro ne segue (m. 3479) separato dalla piramide della Tsanteleina mediante un gran canale colmo di neve che forma il colle Bobba.
Dalla Tsanteleina, di cui si parlerà in seguito, lo spartiacque scende per la vertiginosa cresta Nord al colle omonimo (m. 3154), dal quale percorrendo breve tratto, con andamento Nord-Est, della balza rocciosa che va a costituire la Granta Parei, giunto alla quota 3291, si volge dapprima verso Nord e poi verso Nord-Ovest dividendo il ghiacciaio italiano di Goletta da quello francese di Rhême. Forma il colle di Goletta (m. 3117) e sale alla Becca della Traversière (m. 3337) dalla quale si originano due costoni: uno con direzione Nord-Nord-Est che divide la valle di Rhêmes dalla Valgrisenche, l'altro verso Ovest-Nord-Ovest che divide l'alta Valgrisenche dal vallone della Sassière (Val dell'Isère).
Riassumendo, dalla punta Basei alla Becca della Traversière la dorsale si eleva in sette vette intermedie: punta Bousson (m. 3337), punta di Galisia (m. 3346), Roc. Basagne (m. 3220), Roc. del Fond (m. 3351), punta Calabre (m. 3445), punta Quart Dessus (m. 3472), Tsanteleina (m. 3601); forma cinque depressioni ben marcate: col Basagne (m. 3110), colle del Fond (m. 3081), col di Rhêmes (m. 3097), colle di Tsanteleina (m. 3154), colle di Goletta (m. 3117).
Sul versante italiano numerosi ghiacciai riempiono il circo: di Lavassey, del Fond, di Centelina, di Soches (detto anche dei Socce o di Sotza) e di Goletta. Sul versante francese i ghiacciai: di Basagne, di Rhême-Calabre, di Bazel, del Quart, di Santet e di Rhême.
Tutte le salite si possono effettuare in giornata partendo dal rifugio Gian Federico Benevolo il quale offre un'ottima base anche per le numerosissime ed attraenti gite sciistiche raccomandabili specialmente nei mesi di aprile e maggio.
(1) Ann. C.A.F. 1876, pag. 198-200.
(2) II Coolidge che vi salì il 29 agosto 1889 la battezzò punta Bazel, perché molto probabilmente si volle riferire al nome del piccolo ghiacciaio che vi sale dal versante francese. Tale denominazione non venne seguita.
(3) Riv. C.A.I., IX, pag. 22.

PUNTA TSANTELEINA (m. 3601)
La Tsanteleina, la punta più elevata del bacino superiore di Rhêmes, ha un solo versante italiano, l'orientale. Gli altri, meridionale, occidentale e settentrionale, sono orientati in modo che le loro acque defluiscono in Francia. La considerevolissima massa presenta ovunque ampi e ripidi pendii di ghiaccio e roccia; a Est è tagliata da un muro a picco di oltre cinquecento metri di altezza che piomba sul ghiacciaio di Soches (4), di fianco, nell'angolo formato a Sud con lo spartiacque, scende un ampio ed inclinato canalone colmo di ghiaccio alto circa trecento metri, con frequenti piccole crepaccie. Così la faccia orientale offre due vie che salgono una per lo spigolo declinante a Nord e l'altro per quello declinante a Sud convergenti entrambi al vertice dell'ardita piramide. Più lungo quello a Nord che si abbassa fino al colle di Tsanteleina, più breve l'altro che si arresta al sommo del canale (colle Bobba) e da cui la cresta spartiacque si rialza in varie prominenze.
Di queste vie di salita dal versante italiano quella per la cresta Nord venne percorsa per la prima volta dal Rev. Coolidge il 5 agosto 1878 (5), per la seconda volta dal Dott. Vallino il 3 agosto 1885 (6) e la terza volta da G. Bobba l'8 agosto 1888 (7). In tal giorno quest'ultimo scese per altra via e più precisamente per la cresta Sud fino al colle Bobba e per il canalone nevoso fino al ghiacciaio di Soches tracciando così un nuovo percorso (seconda via dal versante italiano).
(4) Ben visibile nella fotografia presa da Sud-Est del colle di Tsanteleina.
(5) A.J., IX, pag. 101.
(6) Riv. C.A.I., Vol. IV, pag. 218.
(7) Riv. C.A.I., Vol. VIII, pag. 106.

La faccia meridionale è compresa tra le creste Sud e Sud-Ovest che racchiudono il ghiacciaio del Quart. Quella occidentale è delimitata dalle creste Sud-Ovest e Ovest comprendenti il ghiacciaio di Santet e infine la faccia settentrionale compresa tra le creste Ovest e Nord completamente coperta dal ghiacciaio di Rhème. Dal versante italiano (orientale) abbiamo il vasto ghiacciaio di Soches.

La Tsanteleina dalla Cresta S.S.O. della Granta Parei.
Dalla Francia si può scalare la Tsanteleina per i seguenti itinerari:
a) Cresta Sud (via solita) raggiungendo da Val d'Isère il colle Bobba.
b) Cresta Sud-Ovest. Dal Lago di Santet (che si può raggiungere sia da Val d'Isère traversando il colle della Baillettaz, sia da Tignes, per il lago della Sassière) volgere verso Est e raggiunta la cresta che domina a Sud il ghiacciaio di Santet la si segue fino al punto in cui si connette con quella che sale dal colle della Baillettaz (Punta de la Grande Parèe) che si sorpassa sul versante Nord-Ovest; poscia un po' per la cresta Sud-Ovest e un po' sul versante Nord-Ovest della stessa si raggiungono le rocce giallastre della vetta.
c) Cresta Ovest. Costituita da detriti poco stabili è raccomandabile più in discesa che in salita. Si raggiunge anche dal lago di Santet.
d) Versante Nord-Ovest. Si sale dal ghiacciaio di Rhéme e può richiedere di spostarsi a seconda delle condizioni del ghiaccio. Verso la vetta si riunisce all'itinerario della cresta Nord.
Riassumendo, la Tsanteleina si può salire da tutti i versanti con maggiori o minori difficoltà a seconda del cattivo o buono stato della neve,
Nella prima tavola fuori testo (veduta dalla Grande Sassière) si vedono i versanti settentrionale e occidentale con i ghiacciai di Rhéme e di Santet e le creste Ovest e Sud-Ovest. La cresta Nord si confonde sulla sinistra con un tratto del versante Nord della punta Calabre.

Nell'agosto del 1934, mio fratello ed io ci troviamo a Rhêmes N. D. o per meglio dire a Chanavey colla lodevole intenzione di effettuare qualche escursione nella bella vallata che ancora non conosciamo che molto imperfettamente.
Dopo un fallito tentativo alla Grande Rousse, punta Nord, alla quale dobbiamo rinunciare causa il vetrato che ricopre le già levigate rocce della cresta Est, siamo costretti all'inazione causa il cattivo tempo.
II 15 agosto partiamo sul tardi per raggiungere il rifugio Benevolo in compagnia di due nostri amici. In pochi minuti siamo alla Parrocchiale; la strada carrettabile segue sempre la sponda sinistra della Dora, prosegue in lieve salita e internandosi tra belle pinete raggiungiamo la borgata del Pelaud che si lascia sull'opposta sponda. Nelle vicinanze vi sono i pittoreschi laghetti del Li ai quali merita fare una visita.
Di buon passo sorpassiamo Thumel, composto di pochi casolari in gran parte diroccati perché abbandonati e a quota 1930 (casermetta dei C.C.R.R. - verifica dei documenti) la rotabile ha termine, cedendo il posto ad una mulattiera non sempre comoda.
La stessa segue il risvolto d'un cornicione lungo il promontorio che sorregge i casolari di Fos, rasenta una cascata, varca le acque che solcano il burrone di Fos e raggiunge i casolari di Barmaverin, sui quali incombe il fantastico castellaccio della Becca di Fos.
S'incontra subito dopo una cascata imponente per l'altezza del salto e per il volume delle acque. Poco dopo si attraversa la Dora su un ponte in pietra, si lascia sulla destra la comba di Goletta percorsa da una cascata di oltre cento metri d'altezza e con numerosi risvolti si giunge ai casolari di Lavassey (8).
In pochi minuti giungiamo al rifugio Benevolo che troviamo completamente occupato.
Il mattino seguente alle quattro lasciamo l'ospitale dimora e volgendo verso Sud-Ovest scendiamo a raggiungere la Dora che valichiamo su di un antico ponte. Seguendo la traccia che sale verso la comba di Goletta, lasciamo sulla destra le montagne di Soches e girando a Sud, passando a destra del Truc S. Elena (m. 2640) ci portiamo verso il formidabile bastione roccioso che forma la parete Est della Granta Parei. Per varie vallicelle raggiungiamo la morena frontale del ghiacciaio di Centelina che costeggiamo per breve tratto. Ci inoltriamo ben presto sul ghiacciaio stesso mantenendoci quasi sempre nel mezzo.
Mentre a sinistra lo sguardo spazia verso le distese glaciali che formano la testata della valle di Rhêmes, a destra è limitato dalla parete Est della Granta Parei che costeggeremo in tutta la sua lunghezza. Il ghiaccio è in buone condizioni e le crepaccie sono strette e molto rare. Volgiamo verso Ovest e attraversiamo il ghiacciaio di Soches mantenendo tale direzione. Siamo obbligati a spostarci ripetutamente perché numerose crepaccie ci impediscono il passo e profittiamo di qualche fermata per ammirare l'imponente parete Est della Tsanteleina.
Dopo aver superata una zona di ghiaccio vivo a forte inclinazione raggiungiamo il colle omonimo di dove ha inizio la cresta Nord che intendiamo scalare.
Il tempo che si mantiene sempre splendido e le ottime condizioni della neve fanno sperare in bene.
Proseguiamo in due cordate e ben presto mio fratello prende la testa della marcia. I ramponi mordono la neve gelata dando un senso di perfetta sicurezza. Il forte innevamento ha coperto tutte le rocce della cresta Nord che se fossero scoperte faciliterebbero assai la salita, ma in compenso faremo a meno di scalinare perché invece del ghiaccio vivo troveremo neve gelata.
Abbiamo già un buon vantaggio sull'altra cordata e si sale pertanto seguendo la linea di massima pendenza, a forte andatura. Varie volte protesto affinché si cammini più adagio e si salga con qualche tornante; mio fratello, senza sacco (il suo era rimasto al colle) vede sempre aumentare il vantaggio sui compagni e più nulla lo trattiene.
Raggiungiamo la parte più inclinata del versante Nord che per qualche decina di metri è veramente vertiginoso e lo superiamo di buon passo col solo aiuto dei ramponi. In pochi minuti siamo alle rocce e quindi in vetta ove saremo raggiunti dopo mezz'ora dall'altra cordata.
Riceviamo le congratulazioni dei partecipanti di una comitiva di alpinisti francesi con quattro guide che hanno assistito alla nostra corsa e che ci informano che abbiamo scalata la cresta Nord (450 metri di dislivello dì ghiaccio) in 52 minuti.
Il panorama che si presenta al nostro sguardo è certamente fra i più belli che si possano sperare e presa la cosa sotto un certo aspetto, forse dalla Tsanteleina non soltanto colpisce l'ampiezza, la vastità dell'orizzonte che abbraccia tutta la Tarantasia e il Delfinato, tutta la dorsale alpina dal Rocciamelone alle Levanne, le Graje e le Pennine, ma anche la bellezza delle vallate e la grandezza dei ghiacciai che circondano la punta colle loro abbaglianti distese.
Dopo aver lungamente ammirato tanta bellezza, ci uniamo in un'unica cordata e ritorniamo al colle della Tsanteleina.
Per non rifare l'itinerario del mattino risaliamo un tratto della parete rocciosa che va a formare la Granta Parei e giunti alla quota 3291 proseguiamo verso Nord inoltrandoci nel ghiacciaio di Goletta. Ben presto lasciamo sulla nostra sinistra la Becca della Traversière e spostandoci verso il versante Ovest della Granta Parei per evitare zone crepacciate, raggiungiamo la morena laterale del ghiacciaio di Goletta nei pressi d'un minuscolo, ma pittoresco laghetto.
Ci manteniamo sulla dorsale per circa un chilometro e mezzo perché sulla nostra destra salti rocciosi impediscono di scendere e per tracce prima e poi per un buon sentiero raggiungiamo nuovamente il rifugio Benevolo, donde proseguiamo quasi subito per Chanavey.

(8) Poco prima la Dora fa un'altra splendida cascata, ma per vederla occorre spostarsi a destra della mulattiera.
Guido Muratore

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VITA SEZIONALE


   Arte medioevale piemontese nelle valli alpine


In quella grande rassegna di testimonianze del gusto artistico del Piemonte nei secoli XIII-XVI che è la « Mostra del Gotico e Rinascimento » di Palazzo Carignano, la Montagna non manca d'esser presente. E non sarebbe stato possibile diversamente, in un paese come il Piemonte che, specie nel passato, tanto netto ebbe il carattere alpino sia nell'aspetto politico ed economico sia nell'indole degli abitanti. La Montagna, certo non come oggetto di rappresentazione artistica (il paesaggio non era davvero di moda nell'arte di quei tempi, e poi credo che solo chi sia desueto ai monti sappia sentirne il fascino così suggestivamente da esser capace di trasfigurazione artistica) ma la montagna come elemento produttivo artistico: voglio dire che abbiamo qui sufficienti testimonianze per conoscere gli elementi del gusto artistico dei nostri montanari piemontesi di quei secoli.
Secoli in cui il Piemonte, ancora scarsamente in contatto con vicini di lui più progrediti, visse, specie nelle sue zone di montagna e in intimo rapporto con la Savoia e anche con l'alto Delfinato, i suoi secoli di vita localmente più intensa. Se più tardi stette politicamente su un piano internazionale assai più elevato, perdette però molti dei caratteri più peculiari del suo costume, e del suo costume « alpino » in particolare. Dopo la crisi della dominazione francese alla metà del '500, il Piemonte rinacque gloriosamente, ma con caratteri molto diversi da prima, sia perché al vecchio assetto feudale seguì l'assetto accentrato e assolutistico, tipico della Controriforma, sia perché l'economia assunse aspetti più artigiani e commerciali, sia perché, come ci attestano i molti documenti d'arte locale, il carattere degli abitanti, lieto e sereno fino allora, fiducioso in Dio e in se stessi e nel mondo, sovente un po' ridanciano e godereccio, assunse un tono più raccolto, più grave, più taciturno.
I nuovi interessi economici, commerciali e agricoli, la conseguente decadenza feudale soprattutto alpina, l'accentuato protendersi verso l'Italia dello Stato Sabaudo, l'aprirsi del paese agli influssi culturali delle regioni più progredite d'Italia, tutto portò allora a una rapida decadenza, non solo economica e politica, ma spirituale e morale, della montagna. I signori si trasferiscono nelle città di pianura, molti valligiani prendono a scendere alla piana, le risorse dell'avaro suolo di montagna si deprezzano, e favoriscono la miseria. Ma più ancora dovette per tutto ciò nascere nei nostri montanari un senso tutto nuovo d'inferiorità, rispetto ai più progrediti vicini, senso che doveva indurli a sottovalutare le proprie capacità, il proprio talento, i propri costumi, le proprie istituzioni e, a lungo andare, ad accettare senz'altro le briciole di ciò che potesse giungere di fuori. Quel senso d'inferiorità che lega le mani, che avvilisce, amareggi, che, unito alla decadenza economica, è talvolta l'inizio della fine.
E' questo vecchio Piemonte medioevale, orgoglioso e sereno nella sua vita montanara, contento della sua vita dura, ma non miserabile, sicuro nelle sue valli, padrone dei passi alpini, ghibellino a lungo, ma in casa propria praticamente sicuro della sua indipendenza, il Piemonte, per intenderci, dei castelli valdostani e delle ballate di Giacosa, che possiamo ritrovare in alcune sale di questa Mostra. Un Piemonte che sfoggiava nelle sue valli una produzione artistica fiorente, espressione d'una vita locale, intensa e agiata, e, più, d'un bisogno di esprimere, o veder espresso, artisticamente un proprio caratteristico modo di sentire.
Arte anonima, arretrata assai indubbiamente rispetto a quella contemporanea dell'Italia centrale, non scevra d'influssi lombardi, provenzali e borgognoni, ma espressione pur sempre d'artisti locali e di bisogni locali; artisti che rielaborando e traducendo in espressioni proprie modi d'arte pur spesso non indigeni, attestano d'un mondo interiore che vuol esprimersi, d'una fierezza istintiva in quel non voler accogliere, non subire l'opera altrui.
Intagli in legno, provenienti tanto dalla valle d'Aosta quanto da quella di Susa, paramenti da chiesa cinquecenteschi, pure aostani, molti oggetti preziosi appartenenti a chiese di Aosta, mobili scolpiti, oggetti in rame e ferro, questo ci presenta la Mostra. Ma intagli, paramenti e reliquari ci ricordano quelle chiese più note che qui non sono ricordate con fotografie, perché l'architettura e l'affresco trovano poco spazio come Sant'Orso o la Cattedrale di Aosta, come le chiese di Susa, come le molte chiese e cappelle antiche specialmente di Val di Susa, tutte accomunate nella linea architettonica d'un gotico variamente attenuato e misto col romanico e vivo di ricordi borgognoni e provenzali, e molte affrescate con vigore non privo di grazia e finezza. Così, per citare cose meno note, nel solo comune di Bardonecchia, ben cinque chiese e cappelle sopravvissute a vandalismi antichi e recenti, ci attestano d'un non basso amore d'arte negli antichi abitanti del luogo: e due, quella sopra Millaures e quel del Coignay, meriterebbero d'essere conosciute anche meglio.
Come le chiese, così castelli e case antiche di montagna non sono ricordate, qui, che da mobili e oggetti lavorati. Anche i famosi castelli valdostani sono pur sempre tipicamente gotici nelle linee generali, ma talvolta, come a Issogne, una loro grazia ariosa parla di rinascimentale letizia, o, come a Verrès, l'imponenza ciclopica della concezione rivela arditezze e disegni di potenza, non più barbarica. Rinascita medioevale, lontana dalla assai più nota moderna perché priva del gusto neoclassico, dello spirito pagano, del carattere tendenzialmente cosmopolita; ma espressione di animi non meno sicuri e armonici, seppur di tanto diversi.
Nel complesso, i cimeli di quel passato piemontese impongono ammirazione. In condizioni d'ambiente tanto meno favorevoli, apparentemente, alla cultura e all'elevazione dello spirito, l'arte era ovunque presente, ben più che ora. Sulle vie e mulattiere, le grandi, pittoresche croci valdostane, col Cristo gotico scheletrico e deformato dalla sofferenza, e intorno tutti gli emblemi della Passione, dalla spugna di fiele al gallo di Pietro, dalla scala per la Croce alla lancia di Longino. Le cappelle, e persino i piloncini, affrescati a vivi colori, con piglio narrativo sciolto e spesso gustoso, cinematografico quasi, talvolta, come nella cappella di Miliaures, o nei giudizi universali delle cappelle di San Sisto al Pìan del Colle e del villaggio di Jouvenceaux. Le fontane in pietra lavorata, con la data a cifre cubitali, e, nell'alta val di Susa, gli stemmi finemente scolpiti dei Delfini di Francia, signori della regione fino al 1713. E sovente, sui muri di misere case di paeselli, affreschi religiosi non indegni, e balaustrate di balconi in legno lavorato, e festoncini di legno alle gronde.
Testimonianze d'una gioia ingenua nel pittore che narra, d'un interesse caldo nel montanaro che segue; d'una capacità istintiva di far parte agli altri della propria creazione fantastica, in questi di comprenderla; d'una cordialità, quindi, non ancora delusa e offesa, che invano cercheremo nel montanaro d'oggi. Desiderio di adornare ciò che s'ha attorno, sovente con l'opera delle proprie stesse mani, senza timore di essere rozzi o ingenui, e d'esser derisi. Vita dura, ma lieta, ma fiduciosa.
Invano ora si cercherebbe altrettanto nei nostri monti. Da tempo anche gli ultimi resti d'un'arte e d'un gusto locali sono scomparsi. Dalla pianura vengono ai monti i soliti disegni di chiese, le solite statue di santi in gesso, i soliti modelli d'albergo di montagna coi tetti spioventi di zinco e una sfacciata aria civettuola nelle persiane verdissime. Nè il turismo farà mai rinascere un'arte locale: il montanaro ha del pudore e dell'orgoglio, e non lavora per far giudicare "interessante" la rozzezza del proprio lavoro, anche se oggi le nostre moderne inversioni di gusto possono rendere di moda ciò che nel medesimo tempo si giudica rozzo e ridicolo.
Questo sparire d'una pur residua autonomia di vita artistica montanara, comune del resto anche alle campagne della piana, costituisce una delle manifestazioni più caratteristiche di quella decadenza della montagna che sotto l'aspetto demografico viene suscitando tanti giustificati allarmi.
Giuseppe Rovere

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ATTIVITÀ SVOLTA


   TRE GIORNI E TRE MODESTE VETTE


Alle ore 15,30 del giorno della Epifania giungevamo finalmente, l'amico Peppino Delmastro ed io, alla vetta della Terra Nera (m. 3098).
Partiti da Torino coi treno delle 5,56, dopo ascoltata la Messa delle 5 nella Chiesa di S. Secondo, eravamo andati direttamente a Claviere: di qui con gli sci al Col Sorel, Col Bousson, Col Chabaud, Cresta e Punta Dormillouse, M. Viradantour.
La gita è un po' lunga ma vale la pena di essere fatta: sopratutto dal Col Chabaud in poi lungo la dorsale che forma la cresta di confine fra Italia e Francia lo sguardo spazia sulle innumerevoli punte che si protendono in Delfinato: punte che ci attirano e ci fanno sognare
Dalla Terra Nera diamo un ultimo sguardo ai monti circostanti e un saluto al sole che più non vedremo pur essendo perfettamente sereno, poi giù per il vallone di Clausis: ampia e bella discesa per un primo tratto, poi un largo piano immette ad un salto un po' diritto, da attraversare con precauzione con neve fresca e abbondante, infine eccoci nel fondo del vallone di Thures che percorriamo fino a Ruilles. L'ospitale casa di Barral ci accoglie cordialmente.
L'indomani, sabato, percorriamo tutto il lungo e freddo vallone di Thures fino alla vetta della Ramière (m. 3304): spira un vento gelato che ci infastidisce ed intirizzisce, così che appena giunti al sole, ai piedi del nostro monte, sostiamo per riposarci, rifocillarci e riscaldarci.
Poi su ad un colletto della cresta S.O. ed alla vetta, togliendo gli sci negli ultimi 200 metri perché la neve è assai scarsa. Sulla punta non ci si può fermare tale è la violenza del vento, ma il panorama che ci si offre davanti è superbo. Il Monviso sembra lì a pochi passi, e nel riconoscere i monti ed i colli circostanti ricordiamo le belle gite passate. La discesa avviene sulla faccia Ovest, dapprima neve gelata e dura, poi farinosa e buonissima che ci permette le più ampie e bizzarre volate. E così rientriamo nel buio freddo vallone di Thures fino a Ruilles su neve gelata, ma ottima.
Il terzo giorno, domenica, saliamo al Sestriere: ascoltiamo la S. Messa nella bella Cappella di S. Edoardo, liturgicamente arredata con vero senso d'arte, poi in funivia al Monte Sises. Di qui proseguiamo per creste, o meglio tenendoci sul versante Ovest verso la Rognosa. Sulla dorsale che scende dal Monte Querellet togliamo gli sci e proseguiamo a piedi; meglio avremmo fatto a scendere un centinaio di metri ancora e riportarci in avanti sempre con gli sci fino al colle di S. Giacomo.
La nostra marcia è stata piuttosto lunga: a volte la neve sosteneva il nostro peso, ma più spesso cedeva ed era abbastanza faticoso proseguire in quelle condizioni; poi ci accadde di fare dell'arrampicata! la roccia era così gelata che le dita ci rimanevano attaccate e dovemmo attraversare con precauzione qualche ripido canalino sul versante Ovest. Così non arrivammo alla vetta (m. 3280) che alle 14. Il Bianco, il Cervino e il Rosa e tutte le nostre montagne da una parte, la pianura avvolta nella nebbia dalla quale sorgevano le colline, e più lontano gli Appennini; più vicino a noi le montagne tutte del Cuneese, del Delfinato, della Savoia, costituivano il compenso maggiore alla nostra fatica. Scendiamo per la stessa via; alle 15,45 ritroviamo gli sci. Ci regaliamo una magnifica discesa sulla bella pista del Sises e, dopo avere salito il Fraitève in funivia, un'altra velocissima discesa fino ad Ulzio dove giungiamo affamati e felici alle 17,30.
Tre bei giorni di montagna, tre vette oltre i 3.000 metri, sempre soli. Non abbiamo incontrato nessuno né sulla Dormillouse, che pure pochi anni fa soltanto era meta comune di numerose schiere di sciatori, né a Ruilles, dove eravamo, ci disse Barral, i primi sciatori della stagione, né tanto meno sulla Cresta della Rognosa.
Questo pensiero mi ha tormentato assai, ed ha posto alla mia mente un problema nuovo; la gioventù di oggi disdegna le ascensioni e le gite in sci? Certo il sorgere delle grandi Stazioni Alpine, provviste delle più moderne attrezzature e comodità, l'hanno resa più pigra. Si va con riluttanza e con scarsissimo entusiasmo a fare una salita a piedi quando esistono delle funivie così comode, e si affronta con forse ancor minor piacere una discesa giù per pendici nuove, dove non è segnato alcun itinerario fisso, dove la neve può assumere gli aspetti più varii, dove occorre tracciarsi la pista.
Non voglio con questo affermare che la costruzione di funivie sia dannosa, tutt'altro: lascio questo rimpianto al purista che preferisce la montagna deserta e priva dì comodità per godersela con raffinato egoismo.
Ben vengano le funivie, le strade di montagna, le moderne attrezzature che danno a tanti la possibilità, prima d'ora ignorata, di godersi tante bellezze, fonti di salute, di gioia, di vita. Però vorrei scuotere gli amici sciatori dal torpore dal quale si direbbe che amino lasciarsi avvolgere. Lo sci è sempre stato per noi un mezzo per fare dell'alpinismo o dell'escursionismo d'inverno e di primavera quando la neve impedisce di avvicinare e raggiungere le cime e le vette dei monti. Esso deve rimanere tale, e non diventare fine a sé stesso. Me lo diceva, è poco, un dirigente della F.I.S.I. illustrandomi i provvedimenti adottati per rimettere in vigore quelle gare di fondo che a poco a poco venivano disertate da tutti: occorre far capire sopratutto ai giovani che necessità di ordine morale, fisico, militare, ci inducono a ritornare alle belle gite di un tempo, quando s'andava appunto in sci per raggiungere le cime di un monte: se poi la discesa poteva farsi con neve bella era un divertimento maggiore, un di più che s'aggiungeva, come una buona bottiglia dopo un buon pranzo; se la discesa doveva invece avere luogo su neve cattiva, si era moralmente attrezzati a cavarsela ugualmente senza perdere né il buon umore, né troppo tempo!
lo credo, e vorrei sbagliarmi, che la maggior parte degli sciatori che affollano i pendii di Sestriere, Claviere, Salice, Bardonecchia, Limone, Cervinia, ecc. che vediamo con ammirazione scendere disinvolti e veloci su quelle belle piste di discesa ben tracciate, non saprebbero come cavarsela fuor del battuto, su dorsali di neve bagnata, o crostosa o anche farinosa.
La montagna è pur sempre così come noi l'intendiamo: scuola di educazione, di volontà, di ardimento, e insieme palestra per la ginnastica e l'allenamento dei nostri muscoli e dei nostri polmoni. L'alpinista, lo sciatore-alpinista impara rapidamente a sfruttare ogni sua energia fisica ed intellettuale per riuscire a scoprire il lato debole, il punto di minore resi-stenza che la montagna può offrire, e così dare a lui la possibilità e la ebbrezza della vittoria.
E la conquista della vetta è premio alla tenacia, alla fatica, all'accortezza impiegata, tanto più piacevole ed entusiasmante quanto più grande è stato il dispendio di energie necessario, causa di soddisfazione continua se l'allenamento fisico è tale da non provocare mai stanchezza eccessiva.
lo capisco perfettamente che chi ha soltanto la domenica disponibile preferisca sfruttarla per godere l'aspetto più bello e più meraviglioso dello sport sciistico: la discesa a tutta velocità su di una neve sempre uguale e buona quale si trova su di una pista tracciata da competenti e ben battuta.
Ma qualche anno fa queste piste non c'erano ed allora bisognava fare di necessità virtù, e così s'incontravano sempre numerose comitive di sciatori al Tabor, alla Dormillouse, alla Assietta, alla Sommeiller, all'Aquila, ecc.: vi assicuro che queste gite danno un godimento assai maggiore di quello che si può avere da una discesa rapida, sia pur bellissima. E poi pensiamo che l'Italia ha le sue frontiere sulle Alpi: ogni cittadino, ogni soldato, deve conoscere i suoi monti e saperli percorrere in ogni momento, sia d'estate che d'inverno, con ogni qualità di neve, e con qualunque tempo.
Ne abbiamo tante di mete alpine, una più bella dell'altra: a noi l'imbarazzo della scelta.
Carlo Pol

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VITA SEZIONALE


   Rispetto per la montagna


Di anno in anno, e chissà per quanto tempo ancora, aumenta il numero della gente che sale alla montagna, e non più solo d'estate: anche gli sport invernali hanno ugual numero di appassionati. Non poche stazioni climatiche, meglio attrezzate, hanno ridotto a ben pochi i mesi delle stagioni morte.
Questo afflusso sempre più nutrito e costante di folle cittadine è per la montagna fonte sicura di ricchezza e dovrebbe essere quindi l'argine migliore a quel triste fenomeno dello spopolamento che si accentua sempre più. E' noto invece che l'abbandono della montagna da parte della popolazione rurale è altrettanto grave nelle regioni più battute dal turismo. L'entità della cifra totale della popolazione di questi Comuni può trarre in inganno, ma l'esame delle occupazioni dei residenti, metterà in rilievo come l'aumento (anche per immigrazione) di quella parte della popolazione che si dedica alle industrie turistiche nasconda la forte diminuzione dei vari montanari che vivono del campo, del bosco, del gregge.
Non è perciò sufficiente considerare lo spopolamento montano un fenomeno puramente economico da risolversi solo con provvidenze legislative, il problema ha una parte morale che non è ancora stata abbastanza considerata.
Il rapporto montagna-città va considerato bilateralmente: benefici che riceve l'uomo della città in montagna e benefici che l'uomo della montagna riceve da quello della città.
I primi li vedono tutti. Non solo l'alpinista, ma anche il più panciuto dei sedentari, esalta la montagna come donatrice di energie fisiche, scuola di ardimento, palestra di volontà, ecc. Benefici grandi che, passando a considerare l'altro aspetto, i più credono di aver abbondantemente pagato colla pensione dell'albergo. Ma anche se fin qui il pareggio ci fosse, la partita dei danni ricevuti resta sempre a carico del montanaro, e senza compenso. La folla cittadina porta dalla montagna forza e salute; la montagna s'immiserisce: il pareggio non c'è.
Si potrebbe parlare del depauperamento fisico, ancora notevole, sebbene in diminuzione: troppe comitive si divertono ancora a rotolare i massi per i pendii, a far strage dì stelle alpine e di altre piante pregiate, troppi automobilisti ferragostai tornano in città brandendo a mo' di trofeo il piccolo pino che è costato chissà quanti sudori alla Milizia Forestale, ma questi danni son niente rispetto a quelli che subiscono i montanari, il tesoro più grande della montagna.
Dura è la loro vita, la vita più dura: la conosciamo per visione diretta e non vale la pena di rievocarla. Certe valli danno prodotti che bastano a nutrire la popolazione solo per due mesi all'anno: per il resto il montanaro deve supplire con i prodotti della piccola industria, dell'emigrazione temporanea: unica certa garanzia del pareggio del bilancio è la sua tradizionale sobrietà.
Salgono le folle cittadine a dare esempio della vita del gran mondo, Bella gioventù che dorme fin presso a mezzogiorno e scioglie i muscoli ben più allenati alle danze moderne, in una partita di tennis o sui venti metri quadrati di neve in vista dell'albergo; giovanotti e giovanotte fanno ostentazione di una libertà e di una sguaiataggine di cui si vergognerebbero in città anche quando si decidono a salire verso le vette il tono non
muta: cominciano a giungere ai rifugi comitive in costume da bagno.
Non sono certo il tipo da intonare geremiadi. Anche il Generale C. Bes la pensa così quando scrive (« L'Alpino » del 1° gennaio 1939-XVII°): « Inoltre, tutta una forma nuova di alpeggio maschile e femminile, di monticazione umana, perfettamente organizzata ed attrezzata invade a riprese i monti per vie persino leccate ed apposite, coi suoi gusti e le sue mode anche tartarinesche. Sale su, su ai campi sportivi, ai castelli incantati, alzati fin nel regno dei camosci e delle aquile a portarvi sì vita gaia, animata, nuova, anche al montanaro gradita, quando è educata, onesta, rispettosa del tempio e del suo custode, ma che è nemica, offende, fa tempesta, quando sfacciata, impertinente, non capisce, non rispetta, sporca, calpesta, distrugge, porta cattivo esempio, libertinaggio dovunque ».
Può il valligiano restare insensibile a questa forma di vita che si svolge sotto ai suoi occhi? La signorinetta del tennis che conclude il colloquio con la pastorella esclamando: che vita! La moglie del pizzicagnolo arricchito che si stupisce ad alta voce perché nella casetta non trova la luce elettrica e dichiara che senza il gas non si può far da mangiare, e vorrebbe anche il termosifone. Il commendatore che non riesce a credere che il monta-naro d'inverno vada a tagliare le piante assegnategli dal Comune al limite del bosco e sudi una giornata fra la neve per portarsi a casa un quintale di legna del valore di dieci lire, non credete facciano pensare il montanaro?
Dalli e dalli finisce col convincersi che la vita nelle città deve essere liscia liscia come quella dei villeggianti che vede oziare davanti agli alberghi, e che la morale che gli predica il suo parroco sia la forma antiquata di una mezza superstizione, dato che i « signori » non la rispettano e molti non vanno neppure alla Messa festiva che è troppo mattutina o troppo lunga. Le montanare lasciano i costumi tradizionali e mettono le scarpette col tacco, i loro uomini mutano il tresette nel poker: sempre più forte è in ciascuno il desiderio di lasciare la vita dura dei monti per i castelli incantati della grande città.
Quando verranno gli auspicati provvedimenti legislativi sarà forse troppo tardi per molti: anche se ricchi non si vive sulla montagna senza fede, senza spirito di sacrificio, senza semplicità di costumi: per quanti amano la Patria è veramente terribile pensare che dopo dieci anni è diventato più preoccupante l'ammonimento del Duce: «Sarebbe un triste giorno per la Nazione quello in cui la forte razza degli alpini dovesse sparire ».
Ripenso ai dieci anni di vita della mia Sezione e rivivo ciascuna gita, ciascun campeggio: dove siamo passati, ci ricordano ancora, ci vogliono ancora bene: gli uomini che accompagnavamo sull'alba fino agli alti pascoli sotto le crode, i bimbi per i quali, nei giorni di pioggia, cercavamo di superare la nostra novecentesca ignoranza in fatto di fiabe, le donne con le quali ci raccoglievamo a recitare il Rosario.
Mostrare ai montanari che c'è della gente che sale dalla grande città, ma che ama le loro montagne e le rispetta, comprende i loro problemi, vive quando è possibile la loro vita dura, viene a chiedere la salute del corpo, ma non turba la pace dell'anima.
Così da venticinque anni i vecchi montagnini insegnano ai più giovani: è un tesoro che la Giovane Montagna è orgogliosa di offrire silenziosamente alla Patria col suo modesto lavoro.
Alberto De Mori

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   Penne nere in Val d'Aosta - Notte bianca in sci


All'antivigilia del Natale 1935 capita un ordine portato da uno sciatore ansante.
Nell'imminenza della grande festa cristiana, così cara al cuore di tutti, ci si preparava a partire per le sospirate 48 ore di permesso. La penna nuova e lunga, il colletto più stirato, la divisa più in ordine eran lì preparate con cura meticolosa. Natale, visi cari, la Messa di mezzanotte...
L'ordine giunse inaspettato e perentorio: una divisione alpina parte per l'A. O. Notizia elettrizzante, che ci mise il fuoco addosso. Un affannarsi di telegrammi e di telefonate, di conferme e di smentite. Poi, verso le 21, precisazione ufficiale: del 4° Alpini non partiva che il Battaglione Intra. Noi dell'Aosta potevamo riprendere la vita consueta di distaccamento.
Inutile dire che rimanemmo male. Sentivamo laggiù, verso valle, un pulsar veemente di cuori, un tramestio di partenze, un gran calore di entusiasmo: e noi destinati a restare dove si era, sulle pur meravigliose propaggini candide e gelide del Monte Bianco.
Poi ci scosse l'imminenza del Natale e i due giorni di permesso ci riconquistarono con il loro fascino:due giorni!
La galoppata.
Si era alle ore 21 dell'antivigilia. Era tassativamente disposto che il giorno di S. Stefano per le 7 del mattino tutti dovessimo essere tornati, Non c'era dunque un attimo da perdere: bisognava partire la sera stessa per poter trascorrere a Genova almeno la vigilia pomeriggio e la mattinata del Natale. Ma come raggiungere Aosta, dato che l'ultimo treno della sera era già partito da Prè S. Didier e dato che due giorni di continua e copiosissima nevicata avevano bloccata la strada del fondovalle?
Il primo treno per Torino partiva da Aosta verso le 4 del mattino. Bisognava decidere: o raggiungere quel treno o rinunciare alla scappata a casa. Decidemmo lì per lì, senza un attimo di esitazione.
Erano, come ho detto, le 21 e ci si era appena mutati d'abito perché invitati a cena in una villa vicina. Il tempo di presentare le nostre scuse, rivestire la giacca a vento e le scarpe da sci, dare una lisciata ai legni che, dopo una giornata intensa di attività sulla neve, avevano pur diritto a un po' di riposo, e via sotto il diluvio di neve, verso Aosta, per lo stradone provinciale... 40 Km.
l primi cinque Km. volarono via presto perché la strada in pendenza ci faceva scendere veloci nel gran bianco che le nostre lampade fendevano a coni vivi di luce. A Prè S. Didier entrammo in un'osteria a paraffinare gli sci.
Ci si presentò un tale a qualificarsi per parente di un certo nostro alpino e ad intavolare con noi il discorso. Non appena seppe delle nostre intenzioni, si offerse subito per portarci in slitta fino a Valdigna dove pure lui era diretto. L'idea non ci spiacque, benché il cortese, nostro improvvisato amico desse segni evidenti di eccessiva loquacità ed allegria a base alcoolica.
Tre Alpini, un ubriaco e un vitello.
Ci imbarcammo alla meglio sul biroccio. Eravamo in tutto cinque: noi tre, il conducente ed un vitello da latte. Il povero cavallo iniziò di buona Iena la sua corsa nella notte, obbligato, poveretto, a far le spese della prodigalità del padrone. Correva anche bene, trainandosi dietro il carico scomposto che scivolava ciarlando nel gran silenzio della notte, e riuscendo ad evitare, con l'intelligente istinto più che per la guida dei nostro automedonte, il salto nelle gelide acque della Dora scorrente a lato della strada.
Continuava a nevicare fitto fitto. I dossi attorno, in questo tratto di valle particolarmente pericolosi in periodo di forti nevicate, tenevano noi in continue apprensioni. Il conducente no. Lui continuava a parlare senza posa delle virtù del suo cugino soldato e del raccolto dell'anno e della sana gagliardia del vitello che ci scaldava i piedi: per avvalorare le sue dissertazioni si voltava spesso verso di noi e lasciava le redini per sbracciare con quei gesti e quella loquacità che è propria degli ubriachi.
Non eravamo per nulla tranquilli. Anche il vitello, dal fondo dello slittone, aveva strani sobbalzi. La notte fonda ci veniva incontro come un agguato. Aguzzavamo gli occhi per distinguere i possibili ostacoli e ci tenevamo istintivamente pronti a saltare fuori del veicolo ad ogni evenienza.
La possibilità di guadagnare qualche attimo di tempo ci teneva fermi in sedile; ma avremmo ben preferito essere a terra con gli sci ai piedi anziché su quel pazzo legno.
Ad un tratto una massa informe ci si parò dinnanzi. Un rapido scarto ed il malfermo conducente andò a ruzzoloni nella neve. Ci trovammo per miracolo immobili sull'orlo della scarpata accanto ad un monumentale spazzaneve bloccato e letteralmente sepolto. Poco più oltre la slitta ebbe due scossoni terribili; il vitello saltò su, con occhi da spiritato. L'uomo cominciò ad imprecare. Il cavallo si fermò. Eran caduti in mezzo alla via alcuni massi che, data l'oscurità perfetta in cui si viaggiava, non eran stati scorti né dal conducente né dalla bestia. Dovemmo scendere e lavorare a lungo per poter ripartire.
Chilometri su chilometri.
Finalmente il viaggio prese un tono più calmo e riposante. L'ubriaco continuava imperterrito a parlare, ma già si avvistavano i lumi di Valdigna e si era oltrepassata la gola pericolosa per le valanghe. Erano le 23 quando entrammo in paese. Si sperava davvero di trovare un mezzo, in quel centro abbastanza importante, per raggiungere la città. Ma non se ne fece nulla per la grande quantità di neve accumulata sulle strade: non ci restava che riprendere gli sci, unico e fedele mezzo di trasporto.
Cominciò così la galoppata notturna col timore costante di non giungere in tempo al treno. Ci si alternava nel battere la pista automaticamente, senza perdere un sol attimo. Sostammo una sola volta ad Avise per cacciar giù qualche zolla di zucchero. La stanchezza della giornata trascorsa attivamente in sci si sommava via via alla nuova stanchezza, ma il passo era sostenuto lo stesso. I vari paesi sfilavan via silenziosi e deserti. Invidiavamo di cuore i fortunati che dormivano sonni placidi nelle case da noi sfiorate nella lunga corsa. Cammina e cammina, alle due arrivammo a Villanova. Ancora 10 Km. e di piano perfetto. Lì ci ricolse il timore di non giungere in tempo, ma ci accingemmo all'ultima fatica con vigoria.
Il più piccolo di noi tre è rimasto indietro. Bisogna aspettarlo. Il tempo passa. Riprendiamo decisi. Sono le 2,30. Laggiù un chiaro diffuso nel cielo di neve. E' Aosta.
Ormai siamo a destino, seppur ancora un paio di chilometri ci separi dalla Stazione ferroviaria. La città è avvolta nel silenzio e nella neve; e noi, come pellegrini sperduti, ne percorriamo le vie solitarie a passo alternato.
Ecco il viale della Stazione. Troviamo ancora, dopo venti ore di sci, la forza e la voglia di contenderci il passo sull'estremo traguardo.
Sono le 3,15. Il treno parte fra una mezz'ora. Il tempo di asciugarci un po', di trangugiare un caffè caldo e poi via di nuovo.
Ma gli sci dormono in un ripostiglio della Stazione. Li riprenderemo domani sera per ritornare.
Angelo Costaguta

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